ScopriAMO il Burundi:  Intervista a Lucia, volontaria della Comunità Papa Giovanni XXIII

Lucia ha 21 anni, è una studentessa di Cooperazione Internazionale a Bologna e lavora come allenatrice di ginnastica artistica.

Nel 2019 Lucia passa un mese a Bujumbura, in Burundi, ospite della Comunità Papa Giovanni XXIII. La casa-famiglia in cui ha vissuto accoglieva all’epoca 11 bambini vulnerabili provenienti da villaggi delle zone montuose del Burundi ed è tuttora gestita da Suor Digne, aiutata da due ragazze che si occupano dell’economia della casa e della gestione degli ospiti.  I bambini vengono mandati nella struttura gestita dalla Comunità in accordo con le famiglie, al fine di fornirgli un’educazione migliore rispetto a quella che avrebbero potuto avere rimanendo nei loro villaggi. Inoltre, la struttura ospita un progetto rivolto ai bambini di strada. Oltre alla casa-famiglia di Bujumbura, la Comunità Papa Giovanni XXIII gestisce anche altri progetti nelle zone montuose del Burundi. Fra questi Lucia ha avuto modi di visitare un centro di accoglienza diurno per mamme e bambini che vengono supportati tramite la distribuzione di generi di prima necessità e di strumenti utili per il lavoro. Un altro progetto visitato da Lucia è quello rivolto alla comunità di Pigmei, etnia minoritaria della regione abituata a vivere isolata e in situazione di estrema povertà. Anche in questo caso la Comunità si occupa di fornire generi di prima necessità ma anche di costruire case in lamiera e di assicurare l’accesso all’istruzioni per i bambini dei villaggi.

“Una cosa che mi è piaciuta molto di questi progetti è che sono gestiti totalmente da persone locali e non da italiani espatriati. Questo fa sì che il progetto rispecchi maggiormente i bisogni dei beneficiari e quindi risulti più utile e apprezzato dalle persone.”

Lucia, quali difficoltà hai trovato in Burundi?

La mia difficoltà più grande è stata essere bianca. Le prime due settimane mi sono sentita estremamente a disagio perché venivo trattata in modo diverso rispetto agli altri. Con il tempo ho capito che questa cosa era dovuta al fatto che io fossi un ospite e, in generale, loro hanno un trattamento di riguardo nei confronti degli ospiti. In strada però era un continuo “Mzungu! Mzungu!” (termine usato per appellare i bianchi n.d.r.) e i bambini volevano continuamente toccarmi, questo mi faceva sentire male perché non ritenevo di avere nulla di speciale o di diverso da loro. Con il tempo ci fai l’abitudine e capisci che non può essere altrimenti, soprattutto in un Paese come il Burundi dove ci sono pochissimi bianchi.

È pericolo il Burundi?

Io non sono mai uscita da sola, probabilmente avrei potuto farlo ma non me la sono sentita. Era la mia prima volta in assoluto in Africa, non conoscevo nessuno, non parlavo la loro lingua e nessuno parlava inglese quindi sarebbe stato insensato uscire da sola. Comunque, in generale, mentre di giorno uomini, donne e bambini escono tranquillamente anche da soli, uscire soli la sera invece è pericoloso un po’ per tutti: di norma quando si esce nelle ore buie si gira sempre almeno in gruppi di due persone. Durante i periodi di elezioni diventa pericoloso girare per strada in quanto ci sono spesso proteste e sommosse.

Quale consiglio daresti ad una persona che va in Burundi per la prima volta?

Di vivere con qualcuno di locale, questo secondo me vale in generale ogni volta che si visita un Paese che non sia il proprio, per poter capire meglio come funziona il Paese, la sua cultura, etc. è fondamentale avere il supporto di una persona locale.

Qual è stato il tuo primo impatto?

Appena scesa dall’aereo mi ricordo di essere stata investita da un vento caldissimo e carico di mille odori diversi. Uscita dall’aeroporto sono salita in macchina insieme a Suor Digne e continuavo a guardarmi intorno: vedevo un sacco di persone che camminavano, persone con le biciclette caricate di qualsiasi cosa, donne con cesti in testa, bambini che si tuffavano in un fiume, soldati ovunque, etc. Mille stimoli diversi in una volta sola tanto che non sapevo più dove guardare.

Se tu dovessi creare il tuo Paese perfetto, cosa ti porteresti dal Burundi e cosa dall’Italia?

Dal Burundi mi è piaciuta tanto la solidarietà reciproca che c’è tra le persone, il fatto che uscendo di casa abbiano contatti diretti e stretti con chiunque, anche se non ci si conosce.

Una cosa dell’Italia, che secondo me manca in Burundi, è la solidarietà e l’assistenza dal punto di vista istituzionale e da parte degli enti del terzo settore.

Se potessi farlo, cosa cambieresti del Burundi e dell’Italia?

Ovviamente del Burundi la povertà estrema.

Dell’Italia l’ignoranza che c’è nei confronti della diversità, la non accettazione di coloro che non rispettano i canoni standard di normalità.

La cosa più strana del Burundi?

In Burundi esiste questa tradizione che i bambini non debbano mangiare allo stesso tavolo degli adulti. Questo viene giustificato dal fatto che gli adulti durante i pasti parlano di questioni importanti e/o di argomenti non adatti ai bambini.

Avevi qualche stereotipo prima di partire? E se sì è stato confermato o smentito?

Si, quello del continuo ballare e cantare, che è estremamente vero sia per quanto riguarda i bambini che per quanto riguarda gli adulti.

Un altro stereotipo vero è quello dei tempi dilatati, gli impegni ci sono ma tutto si fa con calma. Però una cosa che mi piace molto è che la giornata si vive al momento: anche se si pianificano delle cose da fare gli imprevisti accadono spesso (anche semplicemente la visita di un ospite inaspettato), ma questo non è visto come un problema ma semplicemente come qualcosa che non era stato programmato. Questa cosa ovviamente si collega allo stereotipo sui tempi dilatati.

Un ricordo caro che hai del Burundi?

Un giorno stavo partecipando ad una messa in occasione di una festività, il prete aveva chiesto ai membri della comunità di portare delle donazioni che sarebbero state devolute ai più bisognosi. Nonostante i fedeli vivessero quasi tutti in condizioni umili, il giorno della celebrazione ho assistito a una processione di mezz’ora in cui le persone portavano sull’altare della Chiesa doni di qualsiasi tipo: capre, galline, riso, vestiti, etc. Questa cosa mi ha colpito molto: nonostante le persone avessero poco, erano disposte a condividerlo con qualcuno che stava peggio.

Riesci a descrivermi il Burundi con un’immagine, un odore e un suono?

Il paesaggio caratterizzato dalle montagne verdi senza traccia di case, solo natura, e il contrasto tra queste e la strada di terra rossa. L’odore quello delle banane e delle patate fritte, che ovunque andassi non mancavano mai. Come suono i bimbi che cantano e urlano a squarciagola.

Se potessi scegliere dove vorresti vivere?

Attualmente in Italia, ma solo per un fattore di studio. Il mio obiettivo, che è anche quello per cui studio, è quello poi di poter tornare in Africa sub-sahariana. 

 

 

Intervista a cura di Veronica Giordani

 

 

 

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