ScopriAMO il Kenya: Gemma, 30 anni. Volontaria programma EU Aid Volunteers

Oggi intervistiamo Gemma, che è appena tornata in Kenya dopo essere rientrata in Italia a causa dell’emergenza sanitaria Covid-19. A Nairobi Gemma ricopre il ruolo di Communication Officer per WeWorld/GVC all’interno del programma EU Aid Volunteers.

Cosa ti ha spinto a partecipare al programma EU Aid Volunteers?

Mi sono laureata in Relazioni internazionali nel 2016 e subito dopo ho iniziato uno stage presso “Azione contro la fame”. Prima di questo stage ero focalizzata sul giornalismo e non avevo mai considerato la cooperazione come una possibile carriera lavorativa. Lavorando per “Azione contro la fame” mi sono appassionata al settore e sono rimasta con loro per due anni come Communication Officer e Press Officer. In quel periodo mi è venuta voglia di andare sul campo per venire a contatto con la realtà dei progetti di cui mi occupavo. Da lì ho iniziato a cercare progetti all’estero e un’amica mi ha consigliato il Programma EU Aid Volunteers, mi sono informata e ho visto che offriva esattamente quello che cercavo io. Ovviamente è un programma competitivo, non prendono persone completamente digiune da esperienza professionale e/o volontaria, devi avere qualcosa da offrire, non è esattamente una prima esperienza.

Come esperienza sul campo è molto strutturata, sei all’interno di un meccanismo dell’Unione Europea che seleziona anche le organizzazioni garantendo la serietà dei progetti. Rispetto magari ad esperienze con associazioni più piccole, con EU Aid Volunteers senti di essere parte di un ingranaggio ben oliato.

Come funziona la procedura di selezione?

La procedura è molto lunga, nel mio caso particolarmente lunga in quanto ero stata selezionata per un progetto in India ma la zona dove dovevo andare è stata colpita da un forte uragano. Questo ha fatto sì che il progetto fosse rimodulato su azioni di emergenza, il ruolo che avrei dovuto ricoprire io (Communication Officer) passava in secondo piano e quindi ho aspettato una seconda call da parte del roster, chiamata che è arrivata dopo circa sei mesi.

Le fasi di selezione sono:

  • APPLICATION ALLA VACANCY
  • COLLOQUIO (UNO/DUE)
  • TRAINING (ONLINE + PRESENZA di circa due settimane)
  • SELEZIONE FINALE
  • PRATICHE PRE PARTENZA (visti, assicurazione, vaccinazioni, etc.)

 Il training in sé è già un’esperienza formativa molto valida, anche se si viene selezionati come riserve, io per esempio non avevo nessuna nozione di Project Management e grazie al training ora ho una conoscenza base del processo di progettazione. Consiglio quindi di fare bene tutta la parte del training, anche quella facoltativa e preparatoria on line.

Tutte le persone che superano il training rimangono nel roster e si ha quindi un’alta possibilità di essere contattati per altre posizioni. Una volta che sei nel roster è difficile non partire.

Raccontaci della tua esperienza: dove vivevi, di cosa ti occupavi?

Vivevo a Nairobi, un luogo “privilegiato” per fare questo tipo di esperienza: una città bellissima, moderna con un sacco di opportunità e di cose da fare.

La vita di deployment è abbastanza routinaria, devi andare in ufficio tutti i giorni. Io come Communication Officer mi occupavo della produzione di contenuti (Informazione, educazione e comunicazione), della redazione e del packaging di diversi Report di Advocacy (es.” Child Protection Booklet”). WeWorld/GVC è focalizzato sui diritti dei bambini e delle donne quindi nel primo periodo mi sono occupata dell’istruzione dei bambini nelle zone rurali, riti di passaggio alternativi al FGM (Female genital mutilation, n.d.r.), etc. Dopo lo scoppio della pandemia Covid-19 c’è stato uno spostamento sulla parte di emergenza sanitaria. Abbiamo smesso di andare in Ufficio e continuato a lavorare da casa dove mi sono ritrovata a produrre materiale informativo sul Covid. È stato molto interessante perché non mi era mai capitato di dover sviluppare dei materiali che sarebbero stati letti da bambini. In un Ufficio di Raccolta Fondi il target della comunicazione è un donatore o comunque il pubblico in generale nel caso di comunicati stampa, in questo caso ho dovuto pensare a come comunicare ai bambini. Rientrata a Milano, a causa dell’emergenza sanitaria, mi sono invece dedicata a un lavoro di reportistica, lavoro che non avevo mai svolto ed è stato molto utile.

Ovviamente l’out break del Covid ha avuto ripercussioni sulla mia esperienza: sarei dovuta andare a fare una missione sul campo in una scuola rurale ma non è stato possibile a causa dell’emergenza sanitaria. Ora che rientrerò in Kenya questa è una cosa che spero di riuscire a fare: entrare nei progetti, parlare con le persone, con i bambini, raccontare le loro storie. Questa è la parte più in linea con il tipo di lavoro che facevo prima: raccogliere “best practice” che vanno all’HQ che le utilizzerà per raccogliere fondi per il progetto, per ampliare e sensibilizzare il pubblico. La parte più umana e più a contatto con la realtà del progetto, che è anche quello che mi aveva spinto a cercare un’esperienza di questo tipo.

 Cosa offre il programma ai volontari a livello economico e di servizi?

Tutte le associazioni che partecipano al programma EU Aid Volunteers sono tenute a:

  •   Reperire un alloggio in una zona sicura, vicina all’Ufficio e alla casa del capo missione
  •   Fornire un’Assicurazione sanitaria (Cigna)
  •   Rimborsare le spese sanitarie da sostenere pre-partenza (es. vaccino febbre gialla)
  •   Rimborsare le spese per il visto
  •   Fornire un Allowance mensile calcolata sul costo della vita nel Paese di Deployment

(Nairobi è una città molto cara in un Paese molto povero)

  •   Rimborsare gli spostamenti per motivi di lavoro
  •   Il vitto e gli spostamenti personali sono a carico del volontario

Rimane un’esperienza di volontariato, bisogna tenere in considerazione che non si riceverà un allowance tale da poter mantenere lo stesso stile di vita che permette un lavoro.

 Quali difficoltà hai dovuto affrontare nel rapporto con la popolazione/cultura locale e nell’ambiente lavorativo?

Il mio team era composto interamente da locali, tranne la capo missione (italiana) e la mia collega (svedese-anche lei EUAV). C’è un tipo di prioritizzazione diversa, anche proprio nelle esigenze tecniche su cosa deve essere fatto prima e cosa dopo. Ad esempio, abbiamo dovuto ridefinire dei loghi, un lavoro che da mia esperienza pregressa richiede al massimo un’ora di tempo. Quello che non avevo considerato è che però non è così scontato stampare questo tipo di loghi in Kenya. Una cosa che per me era semplice ed immediata in Italia, come mandare dei loghi a far stampare, a Nairobi può richiedere anche tre giorni in quanto ci sono poche agenzie che fanno questo tipo di lavoro. Per il resto Nairobi è una città moderna, non ho avuto grandi shock culturali. Quello che può succedere sono i blackout, gli uffici solitamente hanno sempre il generatore di corrente, ma per sicurezza ricordati di avere sempre un power bank ricaricato!

Dal punto di vista culturale credo che Nairobi sia un discorso un po’ a parte perché è una città piena di espatriati. Tutti i miei colleghi (locali n.d.r.) hanno circa quarant’anni, sono persone adulte con famiglia, mentre io ero abituata ad un ambiente lavorativo molto giovane dove creavi anche un rapporto di amicizia al di là dell’aspetto lavorativo. Questa cosa mi è venuta un po’ a mancare, non tanto per l’aspetto culturale ma per la differenza di età. Certo in Kenya a quarant’anni tu sei sicuramente sposato e con figli, in Italia no, non è detto. Questa è una differenza culturale.

Sono riuscita comunque a socializzare e fare delle amicizie con coetanei grazie alla mia coinquilina (che vive in Kenya da alcuni anni) e grazie ad un corso di swahili che frequentavo.

Bisogna sempre seguire un protocollo di sicurezza molto rigoroso, Nairobi è comunque una città pericolosa (in termini di microcriminalità, è una zona sicura senza guerre o tensioni etniche), ad esempio non si può andare in giro per la città a piedi dopo le sei di sera. Bisogna sempre prestare un alto livello di attenzione, evitare determinati quartieri/regioni.

Questo a volte è stato un po’ limitante, ci sono certe limitazioni a cui io non sono abituata ma le devo comunque accettare. Quando decidi di partecipare a esperienze di questo tipo la sicurezza viene prima di tutto.

Cosa ti ha lasciato quest’esperienza?

Una cosa sicuramente positiva dell’esperienza, che puoi sentire in poco tempo, è che sei in un contesto che seppur simile a quello a cui sei abituata (Nairobi è comunque una grande città) è comunque un altro mondo, è tutto diverso. Ti da molta soddisfazione essere in grado di vivere in un altro luogo del mondo: fa bene all’autostima, scopri di avere più spirito di adattamento di quanto pensassi, cominci a vedere cose che prima non consideravi, ti apre la mente. Io non mi consideravo una persona chiusa di mente, come non lo è sicuramente nessuno che decide di partire per il servizio civile, gli EU Aid Volunteers o i Corpi civili di Pace, però nonostante questa base, inevitabilmente si allargano un po’ gli orizzonti.

A chi consiglieresti e a chi sconsiglieresti questo tipo di esperienza?

La sconsiglio a persone che sono molto rigide e che hanno poco spirito di adattamento.

La consiglio a chi vuole capire se una carriera nella cooperazione è il percorso che fa per lui o per lei. Lo consiglio soprattutto a persone che stanno iniziando ad approcciarsi a questo mondo, ma con un minimo di esperienza pregressa. Non è un ruolo in cui offri semplicemente la persona che sei, è un ruolo professionalizzante, è un’esperienza a metà tra il volontariato puro e il lavoro, non puoi essere quindi proprio alle primissime armi. Non servono grandi esperienze pregresse ma almeno uno stage o qualche esperienza informale nel settore per cui fai l’application, a quel livello in cui ha già qualcosa da offrire e credi che quello possa essere il tuo percorso ma non è ancora strutturato. Questo programma è comunque un impegno, devi considerare che all’incirca un anno della tua vita andrà per questo (almeno sei mesi all’estero, più il tempo di preparazione prima e il tempo per ristabilirti al ritorno). Per questo credo che a quest’età sia più facile (30 anni, n.d.r.) con minimo un anno e massimo tre anni di esperienza lavorativa o di stage. Un’esperienza come questa per chi invece ha già una carriera professionale alle spalle potrebbe diventare frustrante. Mentre per una persona che inizia a muovere i primi passi nel settore può rappresentare una buona prospettiva per la carriera.

Intervista a cura di Veronica Giordani

 

 

 

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