Impressioni di un operatore della sanità in servizio negli Hotspot.

Eppure basterebbe chiederglielo.

Basterebbe per un attimo ignorare tutti i preconcetti, le supposizioni e, con disponibilità all’ascolto, chiedere: “Come mai sei venuto in Italia?”.

Tanto di tempo ce n’è, qui, in sala d’attesa. Almeno 14 giorni.

Se vi chiedessi di associare la sala d’attesa ad un luogo, probabilmente la assocereste a quella di un ospedale o del medico, ovvero luoghi in cui l’unico tempo ad esistere è il presente, e che sono caratterizzati da un generale senso di assoluta precarietà, provvisorietà e transito.

Ti ritrovi lì, seduto ad aspettare per non sai quanto tempo e non sai neanche quale sarà l’esito della visita.

E così come te tutti quelli che si trovano all’interno della stessa sala. I posti come questo prendono il nome di nonluoghi.

Mi chiedo se sia possibile applicare questa definizione alla vita.

Mi spiego meglio: sebbene i nonluoghi siano luoghi fisici e perciò delimitati da confini, sarebbe possibile applicare le stesse caratteristiche che definiscono i nonluoghi alla vita e definirla perciò nonvita?

Considerando i tempi in cui viviamo ci si interroga sempre più su cosa succederà, quali saranno le prossime restrizioni, se saremo liberi di andare a prendere una birra o addirittura se manterremo il nostro posto di lavoro.

Alcuni di questi quesiti erano però già presenti nei componenti della nostra società ben prima di questo periodo.

Prima di tutte le restrizioni conseguenti alla pandemia che stiamo vivendo, quella che in molti ritenevano fosse la soluzione per raggiungere la tanto agognata stabilità, è stata l’emigrazione.

Molti giovani, io stesso ad esempio, sono andati oltre confine in cerca di quel lavoro che potesse permetterci una vita stabile. Permettere a noi ed ai nostri familiari di vivere senza più quella sensazione di nonvita, senza chiedersi costantemente “cosa dovrei fare?”.

Per noi, o per la maggior parte di noi, è stato abbastanza facile.

Abbiamo comprato un biglietto, preso un aereo e nel giro di qualche ora eravamo già oltralpe, ospitati da amici o parenti già presenti sul territorio.

Poi abbiamo immediatamente iniziato la ricerca di un lavoro, senza troppe pretese inizialmente, ci sarebbe andato bene un lavoro qualsiasi purché ci permettesse di rimanere, piuttosto che tornare indietro.

Purché ci permettesse di vivere.

Ho definito “facile” tutto ciò, pur conscio di quanto sia nei fatti complesso lasciare i propri luoghi d’origine, riferendomi al mero aspetto burocratico della questione perché, come scriveva Stefan Zweig: “Una volta l’uomo aveva un’anima e un corpo, oggi ha bisogno anche di un passaporto, altrimenti non viene trattato da essere umano.”

Nessuno, una volta arrivati nel paese di destinazione ci ha bloccati chiedendoci i documenti con l’intento di rimandarci indietro, nessuno ci ha richiesto il permesso di soggiorno definendoci, nel caso di non possesso, illegali o clandestini.

Questo perché viviamo in un continente che cerca di unificarsi, nel quale i confini sono stati aboliti e viviamo in un regime di libera circolazione.

Ciò significa che se nel nostro paese viviamo una condizione che non ci soddisfa, siamo LIBERI di poter andare in un altro stato a cercare quello che riteniamo possa essere il nostro paradiso.

Mi si dirà “Certo, finché rimani in Europa, ma se vai fuori hai bisogno del visa”.

Ed infatti i numeri di chi ricerca la propria stabilità al di fuori della Comunità Europea, sono nettamente inferiori di chi la cerca nelle vicinanze del paese d’origine.

L’uomo ha creato i confini politici, e sempre l’uomo è riuscito, almeno in parte, ad abbatterli.

Mi chiedo perché sia così difficile farlo quando si tratta di accogliere chi viene d’oltremare.

Chi viene d’oltremare, come già detto, lo fa mosso dallo stesso fondamentale motivo per cui lo fanno gli italiani, giovani e non: migliorare le proprie condizioni di vita.

E se noi riteniamo le nostre condizioni di vita non soddisfacenti, come possiamo non compatire persone che fuggono da luoghi in cui nemmeno l’acqua è assicurata giornalmente?

Persone che magari avevano una casa proprio come le nostre, che non avevano neanche la necessità di volerla lasciare, ma che, improvvisamente, non si sono più sentite al sicuro sotto quel vibrante tetto che ad ogni raid diventa sempre più precario ed instabile, come la loro esistenza.

O semplici giovani che vorrebbero permettersi lo stesso stile di vita di coloro che in ogni stagione vedono arrivare nei loro paesi per trascorrere le vacanze in quegli alberghi sulla costa.

Edifici che magari impediscono agli abitanti delle baracche di osservare l’oceano ma non impediscono loro il desiderare di attraversarlo.

Attraversarlo per diventare come quei facoltosi, e poi tornare a casa.

Perché in chi parte per necessità, e non per curiosità, c’è sempre il desiderio di ritornare a casa, la voglia di non essere mai dovuto partire.

Per queste persone, raggiungere il paradiso non è facile.

Le poche ore di viaggio possono trasformarsi in anni.

Il costo del viaggio è la somma dei soldi racimolati tramite collette dei parenti che sperano, in futuro, di poterne trarre un vantaggio.

Quei giovani, che partono provando a lasciarsi alle spalle la povertà, sono un investimento per la piccola comunità familiare.

C’è chi ha già una meta ben precisa, l’intenzione di raggiungere quei parenti che “ce l’hanno fatta”, e chi invece vaga inizialmente per il proprio continente e si ritrovandosi ad un certo punto, nell’impossibilità di tornare indietro.

È il caso, ad esempio, dei sub sahariani.

L’unico modo che permette loro di attraversare il deserto, per raggiungere i più economicamente floridi stati che si affacciano sul mediterraneo, è quello di affidarsi ai trafficanti.

Così pick-up e camion stracolmi di esseri umani attraversano la sconfinatezza e la desolazione del deserto del Sahara.

Un dettaglio è però essenziale e doveroso da riportare: il servizio è di sola andata.

Sempre che non muoiano o vengano rapinati ed abbandonati durante la tratta.

E se nel frattempo nel paese che volevano raggiungere sono scoppiate rivoluzioni e guerre civili, come nel caso delle primavere arabe?

Bisognerebbe prendere visione dei flussi migratori per capire, prima di tutto, chi sono i nostri ospiti; da dove vengono, e così capire I motivi della loro ricerca.

Durante le procedure d’accesso all’Hotspot viene posto al polso dei migranti un bracciale sul quale sono riportati il codice dello sbarco ed il numero che è stato loro assegnato; è così che verranno d’ora in poi, per facilità burocratica, identificati durante la loro permanenza e nel disbrigo delle necessarie pratiche.

L’individuo nel nonluogo perde tutte le sue caratteristiche e i ruoli personali per continuare a esistere solo ed esclusivamente come fruitore del servizio senza distinzioni: non più come persone nella loro individualità, ma come entità generiche.

Il suo unico ruolo è quello di utente in attesa di giudizio, momentaneo ospite.

La temporaneità è un’altra fondamentale caratteristica dei nonluoghi, qui gli esseri vi transitano, ma nessuno vi abita.

Il rapporto fra il nonluogo e i suoi attraversatori avviene solitamente tramite simboli, ad esempio i cartelli affissi alle pareti che delimitano i confini dello stesso e che, in varie lingue, indicano agli ospiti i loro diritti, i loro doveri e l’orario dei pasti.

Si pretende però molto spesso che gli ospiti rispettino ciò che sono i loro doveri, senza però garantirgli i fondamentali diritti.

Così come non è garantita, a volte, neanche l’edibilità dei pasti.

L’Hotspot è il più atroce dei nonluoghi, un limbo di limitate ma indefinite possibilità.

L’Hotspot è campo da trebbiare di esistenze in pausa, che attendono arrivi la loro stagione.

L’Hotspot può assumere, nell’individualità dell’individuo, il ruolo di anticamera della libertà o di sala d’attesa per un volo di rimpatrio.

È il luogo che li vedrà, alla fine della loro permanenza, essere accolti, rimpatriati o, chi in possesso del foglio di via, liberi.

Liberi sì, ma non sul suolo italiano.

Dario

 

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